L'esitazione di Amleto by Yves Bonnefoy

L'esitazione di Amleto by Yves Bonnefoy

autore:Yves Bonnefoy [Bonnefoy, Yves]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Il Saggiatore
pubblicato: 2023-06-08T22:00:00+00:00


3. Teatro e poesia

I

Shakespeare prende il posto di Amleto su una scena che non sarà più, stavolta, quella di un Medioevo che si attarda in un «nord-nord-ovest» dello spirito ma la totalità del fatto umano sulla soglia del suo avvenire: una società di cui non bisognerà tanto cercare di dire lo stato attuale, in un testo sempre specioso, quanto di liberare le parole, che il passato inibisce, per stimolarle affinché possano, ancora, cambiare la vita. Che le nostre parole non siano più lo specchio che si rivolge con compiacenza ad azioni e ambizioni che pretendono di essere autentiche, in modo tuttavia così illusorio, così povero: proprio questo fece Amleto quando elogiò la misura e il ritegno dopo aver soffocato nel suo cuore il grido di Ecuba! Che siano la parola che spezza, osiamo questa catacresi, le catene di questo specchio!

E ciò equivale a dire che Amleto, bisogna ribadirlo ancora una volta, non è, come alcuni credono, un riflesso di William Shakespeare – dell’uomo reale che egli era, quando scriveva l’opera – ma ciò che aiuterà questo poeta in erba a farla finita con le figure insufficienti, ingannevoli, che immaginerebbe di vedere dentro di sé se si analizzasse esclusivamente con gli strumenti della psicologia, questa complice di tutto ciò che vuole solo perpetuarsi. In Amleto il grande umano desiderabile è ancora qualcosa di ignoto, che deve avvenire. «Who’s there?» Non è un caso, ma una premonizione, che queste parole siano le primissime dell’opera, nella notte in cui si aggira lo spettro delle illusioni del passato.

Questa decisione di Shakespeare, questo vacillare di un personaggio che ha creato per progredire nella ricerca in sé, o meglio di sé, la chiamerò, con il più «aperto» tra tutti i termini, la parola. Nefasta e subito fatale è la decisione dei linguisti di definire la parola come l’utilizzo, il semplice utilizzo, della lingua. Significa non rendersi conto del fatto che il parlare abbia il dovere di mettere in discussione le pseudo-evidenze di termini raggrumati in formulazioni prive di sostanza: criticando il loro impossessarsi del presente dello spirito per riuscire effettivamente ad accedere al grande atemporale della finitudine, anima del tempo che acconsente a sé. Impariamo a fare della parola il luogo e il divenire di ciò che chiamerò – con un altro termine aperto – la nostra fede, la nostra unica fede. E tutto ciò affinché parlare non sia più la trappola di cui restano prigionieri, tristemente, gli esseri che più desiderano momenti di condivisione, ma la prova che li aiuta a liberarsi dalle insidie di un pensiero che si perde nei sogni.

E cos’è la parola definita in questo modo se non innanzitutto il verso che soffre nel componimento poetico ma talvolta da esso si affranca, riversando sulle terre dell’esistenza la sua luce di fiume in piena?

Torno ancora una volta sul racconto della morte di Priamo e del grido di Ecuba per comprenderne meglio i limiti ma ancora di più per simpatizzare con essi. Cos’è questa «tirata»? Una poesia, semplicemente una poesia. Con ingigantito, esibito, ciò



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